• CITTA' COME ARGOMENTO DELLE EMOZIONI UMANE

    Leone Podrini

    Il grande sforzo dell’urbanistica moderna è stato quello di convincere l’uomo a modificare i propri modelli di vita sottoponendogli, a questo scopo, soluzioni “prefabbricate” ed esclusivamente “razionali” in grado di soddisfare i propri bisogni.
    Il risultato di questa strategia si riflette nell’immagine delle moderne città che altro non possono definirsi che un’insieme di architetture quasi sempre subite e raramente condivise, esempi su larga scala di scarsa partecipazione al “comune”, sistemi unitari spesso produttori di alienazione totale.
    Per fortuna, però, la città è ancora espressione fisica della necessità che le persone hanno di incontrarsi, accomunarsi, amalgamarsi e divenire comunità in grado di risolvere in solido i problemi generali.
    L’uomo, che ha ancora dentro di sé la voglia e la necessità delle sensazioni che gli derivano dal sentirsi parte integrante dello spazio fisico che lo circonda, comincia a rifiutare l’esperienza imposta dagli “asettici” modelli pianificatori che hanno brutalmente eliminato la possibilità di avere queste sensazioni e che, proponendosi come dispensatori unici di nuovi e più raggiungibili bisogni, hanno invece tradito queste promesse assoggettandosi all’interesse di chi ha inteso usarli come strumento di potere, producendo unicamente città invivibili e ammassi disarticolati di forme e contenuti.
    Lo squallore delle “emergenze” che contengono l’uomo vengono giustificate con la necessità di adeguarsi alle esigenze dell’industria e al contenimento dei costi e invece, la monotonia ripetitiva dell’attuale prodotto edilizio e la conseguente disgregazione dell’ambiente costruito  che si tenta di imputare culturalmente al razionalismo e al funzionalismo, non sono altro che il fallimento di un metodo che deve restituire al cittadino il suo stato naturale di soggetto sociale, libero e autorizzato a tendere al miglioramento qualitativo della propria vita all’interno della città, culturalmente impegnato a riconoscersi in essa come nell’unica essenza capace di dissacrare la provocazione in atto.
    Per questo, non ha più senso continuare a operare secondo le attuali tendenze, aggiungendo alle città l’aggiungibile che via via necessita, cercando di adattarle alle esigenze dell’uomo  moderno senza la consapevolezza che il sistema non è più proponibile materialmente né accettabile culturalmente.
    Le metodologie di intervento per il recupero dei centri storici sono in questo altamente significative. Il dibattito si focalizza infatti sulle tre tendenze di fondo che, riassumibili nella dogmatica intransigenza della conservazione, nella necessità della trasformazione e persino nella utopica speranza purificatrice degli sventramenti, non tengono conto che ognuna di queste ha in sè solo “la speranza” della soluzione perché i centri storici non sono altro che la parte più antica delle città contemporanee che sono già tutte “centro storico” e quindi tutte da recuperare e rivitalizzare.
    Ed è proprio dalla dilatazione alla grande scala di questo specifico aspetto della problematica della moderne città che diviene sempre più urgente entrare nel dibattito e, ciò che ci spinge, è la convinzione che bisogna pensare a un modo di costruire la città che prescinda da condizionamenti di convenienza e da asservimenti al potere economico, capace di produrre non più convulsi alveari in deformi periferie, ma città basate sulle sensazioni, come risultanza di esperienze che derivano dall’intimo rapporto che l’uomo ha per natura con la terra, come manifestazione fisica del lavoro umano.
    Dunque, città come “argomento” delle emozioni umane e architettura come mezzo per il recupero del “rapporto tra uomo e ambiente costruito”.

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