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IO, IL MIO DOPPIO E L'ARCHITETTURA
Leone Podrini
Ogni volta che parliamo di architettura, caro amico, ci troviamo a discutere e, ogni volta, mi rendo conto che avrei dovuto iniziare prima a insistere per convincerti che i principi ispiratori della nuova architettura, sono il risultato di tutta una serie di bisogni che, sistemi di rilevamento più o meno complessi, hanno caratterizzato, quantificato e classificato.
Devi renderti conto, dico all’inizio del nostro confronto- scontro, che i mezzi di diffusione delle informazioni sono numerosissimi e, tutti, hanno una sola finalità: creare automatismi e tutto ciò che viene trasmesso attraverso i mass-media ha l’obiettivo di creare una concezione di vita consumo-dipendente.
Non è così, replichi. Definita la condizione dell’uomo in relazione ai bisogni indotti, è sufficiente determinare il sistema di costruzione più appriopriato alla sua natura, attraverso scelte “razionali” e “precostituite”, e sarà semplice determinare un modello tipo applicabile a qualsiasi gruppo umano, in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo.
Certo, insisto, ma questo secondo la cultura dei dogmatismi e delle ideologie alle quali sempre di più sembri aggrapparti.
Rifletti, continuo, e ti accorgerai che l’induzione dei bisogni e gli automatismi, provocano tutta una serie di problemi che non sono risolvibili con la costruzione massificata delle abitazioni o con l’aumento delle infrastrutture, in risposta all’aumento dei bisogni determinati dal miglioramento e dall’evoluzione continua dei sistemi di vita.
Ricordi i tempi dell’università, quando tutti eravamo convinti che il Razionalismo sarebbe stata l’avvenimento storico chiave che avrebbe sconvolto il divenire umano con la promozione del progresso e l’avvento della Modernità?
In realtà, devi riconoscere, l’omogeneità alienante dell’ambiente urbano e l’indifferenza delle scelte, si sono dimostrati la maggiore caratteristica di quelli che erano considerati i pilastri stessi della Modernità: la standardizzazione e la pianificazione.
Non ribatte il mio doppio, e allora proseguo e, per cercare di non dargli troppo spazio, gli faccio notare: la verifica sul reale e l’analisi della qualità dell’ambiente urbano che caratterizza le nostre città, non ci rivela che interventi traumatizzanti e limitativi, perché non sono discussi con gli utenti che sono trattati come veri e propri oggetti.
La nostra società, dopo l’avvenimento storico così enfaticamente sostenuto dall’uomo dei gessetti colorati, è tornata ai modelli premedioevali poiché, come allora, l’uomo è collocato a una distanza sempre maggiore dalle decisioni che lo riguardano, lascandolo in una situazione di grande inerzia e impotenza.
Allora vuoi dire, reagisce con veemenza il mio doppio che, non replicando da un pò, mi aveva dato l’impressione di essere quasi convinto, che l’evento della Rivoluzione Industriale e l’opera dei razionalisti e dello stesso Le Corbusier siano stati non dico inutili ma addirittura dannosi secondo il tuo modo di considerare la relazione tra l’uomo e l’architettura.
Voglio dire, gli ribatto pazientemente ma decisamente, che vivere insieme è una delle necessità primarie dell’uomo e la città deve essere, per questo, il luogo per la garanzia di una condizione di sicurezza, di stabilità e di appagamento delle necessità, oltre che l’unico contesto nel quale è possibile lo sviluppo della coscienza umana sia a livello individuale che a livello di gruppo.
Diventando prodotto e strumento di una struttura sociale governata dai dogmatismi, la città perde il suo significato originale e cessa la sua vera funzione.
Naturalmente sono convinto delle teorie che sto sostenendo anche se, a volte, in fondo all’anima, qualche dubbio interviene ad incrinare le mie certezze. Dubbi che però ricaccio subito indietro perché, penso, non si è ancora capito come si possa togliere all’uomo la necessità del contatto diretto con le altre persone e con i luoghi che rappresentano la propria radice; e l’esigenza di governare la necessaria trasformazione passa, sempre più, non attraverso la spinta del paradigma che tende a scardinare la città definita e rendere tutto il territorio asetticamente urbanizzato, ma attraverso l’insopprimibile esigenza dell’uomo di possedere un luogo come proprio, in cui vivere insieme a persone con le quali formare una comunità.
E allora, ricaricato e pronto a sostenere la discussione, riprendo: oltre alla ideologia come strumento di razionalizzazione delle esigenze e come fondamento della qualità urbana, esiste il problema della relazione fra l’architettura stessa e l’uomo che non può considerarsi risolto, come sostieni tu, con il semplice atto fisico della realizzazione. Non è cioè sufficiente costruire case per dare vita alla città inanimata. Sono l’eterogeneità delle attività e delle funzioni che la rendono pulsante; è il rapporto tra i diversi modi di fruizione che definisce i “segni” della irrinunciabile esigenza dell’abitare, unito all’insieme delle reciproche relazioni.
L’architettura delle ideologie ha imprudentemente, ma non impunemente, ignorato l’interdipendenza dei segni che sono la caratteristica di ogni aggregazione umana nell’illusione che, individuando i bisogni e trasformandoli in regole da applicare e da seguire, si potessero risolvere i problemi della città.
Ogni trasformazione da “bisogno” a “oggetto” in grado di risolvere il bisogno stesso, ogni intervento nella struttura urbana, ogni proposta di architettura, quando passa attraverso la teorizzazione dogmatica, si propone in modo arbitrario perché usa un linguaggio esclusivamente proprio che limita gli ambiti delle scelte, delle espressioni, dei significati.
Il risultato, sono gli enormi interventi che sconvolgono le trame del tessuto abitativo con inaccettabile violenza e gli interminabili quartieri dormitorio nei quali, non incontrare nessuno per la maggior parte del tempo, evoca sensazioni da incubo.
Questa volta è lui, il mio doppio, a reagire, dicendomi quasi irritato: stai cercando di far passare il concetto che quella che tu chiami “l’architettura delle ideologie” è un’architettura imperativa, coercitiva e, nella maggior parte dei casi, semplicemente ridotta a grigia esercitazione da parte di aridi pianificatori asserviti al potere politico, freddi teorizzatori e detentori di un potere che, secondo te, dovrebbe essere anche di altri.
Certo che dovrebbe essere anche di altri, rispondo, perché l’arrogante e presuntuoso isolamento nel quale si chiudono i pianificatori ideologizzati, reputandosi gli unici in grado di addentrarsi nelle complesse vicende della città, li collocano, in realtà, mentalmente lontani dalla consapevolezza della inscindibilità del binomio cultura-architettura che si traduce in un processo essenzialmente sociale, in cui lo spazio di esistenza è l’elemento fondamentale perché si produca l’esistenza dello spazio stesso e all’interno del quale va ricercata la capacità di soddisfare i bisogni dell’uomo, siano essi di carattere psicologico, fisiologico o culturale.
Ma……
Niente ma, mio caro, e questa volta sono io che reagisco con calore, per fortuna la storia contemporanea ha ormai catalogato l’architettura dei dogmatismi, ed è perciò una necessità assoluta reintegrare l’uomo nel processo di riqualificazione culturale dell’architettura, nella sua rifondazione, perché la costrizione, la coercizione, l’imposizione del metodo, del tipo, della forma, la determinazione monocentrica del modello di riferimento, l’uso ideologizzato del sito, hanno provocato danni che non è esagerato definire irreparabili.
Mi accorgo che sto infierendo – in senso buono, naturalmente - , sento che il mio doppio inizia a subire la “pressione” che sto esercitando su di lui e, le perplessità che cominciano ad affiorare, mi incoraggiano a tentare l’affondo.
Quando le città erano costruite a misura d’uomo, queste sorgevano con le case che si sostenevano a vicenda quasi a sopportare, “anch’esse cosa animata”, l’onere della sopravvivenza.
Con il trascorrere del tempo, di fronte al progredire dell’uomo e, per contro, al mutare continuo del potere politico, ciò che comunque rimane è la città che cambia, anche se i modelli a cui si è via via riferita, l’hanno trasformata in un mòloc moderno partorito dalla incauta mente dell’architetto pianificatore.
Ma l’uomo ha deciso di riprendersi la città e, soprattutto, il suo significato; perché anche se la città del futuro sarà perfettamente funzionale, anche se l’architettura si adatterà finalmente alle nuove condizioni di vita dell’uomo, essa conserverà il suo valore semiologico solo con la convivenza dei suoi fruitori.
Bisogna quindi che l’architettura dei paradigmi cessi di considerare la città in termini aridi di modello, funzionalità e fruibilità puntuale e che si riapra il dibattito sull’architettura in generale e sulle sue qualità in modo specifico, poiché questo tende oggi a spegnersi nonostante il riconoscimento del ruolo che questa svolge in una realtà che interessa l’intera vita umana e nonostante le grandi problematiche legate alla necessità di ricercare nuove forme di aggregazione urbana e di uso del suolo.
A questo punto, sono pressochè sicuro che il mio doppio non solo ha esaurito gli argomenti, ma comincia a mostrare segni di avvicinamento alle mie teorie perché su alcune considerazioni si dimostra più possibilista, più disponibile alla riflessione e, soprattutto, più aperto all’esame critico della realtà oggettiva rappresentata dalla città arida e spesso invivibile che ci circonda.
E infatti, timidamente, anche se un po’ contrariato, comincia ad ammettere: in effetti, a ben guardare, si percepisce ormai irreversibile la crisi profonda della società moderna in ordine alla necessità di definire il rapporto fra esigenze abitative e territorio così come, del resto, è innegabile il disinteresse delle istituzioni e degli operatori verso il riconoscimento della funzione socio-psicologica dell’architettura che ha provocato il distacco profondo tra la città e i suoi fruitori, tipico della società moderna.
Certo che è così, dico cercando di approfittare dello spiraglio che mi sembra essersi aperto per infilarmici dentro…….., ma ciò avviene per la scarsa conoscenza delle problematiche di fondo, per l’abitudine a trattare l’architettura non come mezzo di espressione per comunicare e come sistema di forme per vivere, ma come disciplina “riservata” a gruppi ristretti di operatori, da questi controllata, dominata e imposta, per essere poi divulgata attraverso ambiti “riservati” e specialistici - le riviste di architettura - che, di fatto, definiscono i contenuti, le finalità e i linguaggi da sottoporre come verità agli utenti.
Allora, se proprio vogliamo dirla tutta, dice seguendomi sempre più nel mio ragionamento, non sono esenti da colpe coloro che, poco rispettosi della disciplina e della prassi progettuale e poco disposti a sopportare il faticoso e poco appagante ruolo di portatori delle esigenze della società, totalmente rivolti alla ossessiva ricerca del soddisfacimento dei bisogni della cultura moderna che privilegia l’effimero della esteriorità alla qualità dei contenuti, concentrano la loro attenzione su fatti di “facciata” e fanno di nuovo del “formalismo” lo sterile risultato della loro ricerca e del loro operare.
In effetti, prosegue con calore tanto da farmi pensare che sia sul punto di convertirsi alle mie teorie, una società ormai altamente evoluta sul piano tecnologico e quasi totalmente governata dall’elettronica, nella quale i continui mutamenti dei suoi sistemi operativi producono altrettanti continui adattamenti politici e culturali con conseguenti modificazioni della struttura societraria, non può continuare a permettere che l’accesso alle informazioni, la determinazione delle scelte e il dibattito sull’architettura e la città, siano riservati a pochi senza essere condotti su un piano che coinvolga l’intera società.
Infatti, lo assecondo come per spronarlo e incoraggiarlo a superare le ultime perplessità, l’attuale invivibilità delle nostre città è la conseguenza di errate previsioni sullo sviluppo della società e di illusori convincimenti sulla possibilità di collocare l’uomo a una distanza sempre maggiore dalle scelte che lo riguardano.
E quindi, caro amico, perché cambino gli atteggiamenti e l’innovazione divenga un obiettivo vero, bisogna che ci convinciamo che i “segni dell’habitat” vanno ricercati, prima che sul prodotto architettonico, sul rinnovamento del dibattito a esso relativo, nella ricerca delle componenti che nei diversi periodi ne hanno costituito i caratteri qualitativi, per stabilire di che natura deve essere la struttura urbana e quale la sua espressione fisica.
Il mio doppio non replica più e non obietta, segno evidente che concordiamo ormai su tutto e, mentre annuisce, proseguo affermando che è l’architettura intesa come mezzo per favorire il mutamento costante della situazioni che ci interessa, al di fuori delle sterili teorizzazioni dei nuovi profeti, considerata come efficace conseguenza delle tante discussioni ora separate perché basate unicamente su interessi di parte e condotte da personaggi abilissimi nel sostituire le parole ai fatti.
Non quindi sterile trattazione tecnica dei problemi ma, al contrario, racconto della realtà del vivere umano descritto attraverso il progetto d’architettura, attenti anche alle dichiarazioni di principio e ai contenuti delle tandenze e delle avanguardie, ma non al ruolo egemone che queste possono avere sull’architettura stessa.
Ciò al fine di esaltarne il giusto valore al di fuori delle classificazioni e nella ricerca di quei contenuti che devono essere dietro al prodotto architettonico affinchè questo diventi espressivo di una società ottimizzata, concentrati sulle situazioni e sugli avvenimenti che via via possano mettere in evidenza il vero significato del fare architettura.
Significato da individuare attraverso i problemi dello spazio, del luogo, della forma, del tipo e dell’ambiente, attraverso i problemi di ordine funzionale ed estetico, le trasformazioni sociali, le ricerche architettoniche più avanzate e le modificazioni che queste sono in grado di provocare, attraverso la Post-Modernità non come fatto storico, ormai raggiunto, ma come occasione di continuo mutamento e continua ricerca di comprensione della realtà che ci circonda, per riannodare i legami fra l’architettura, il suo linguaggio e la società.
Il fine, continuo quasi senza prendere fiato perché è ormai evidente che sta capitolando, è la concretizzazione di un’idea che permetta all’uomo di oggi di ritrovare il “cuore della città” e agli architetti della società consumistica di tentare di rispondere a quella che sembra essere divenuta l’eterna domanda senza risposta: “di cosa deve occuparsi l’architettura”?
I problemi che la travagliano sono di natura sociale, politica e metafisica e non puramente o esclusivamente tecnici e formali e Il rapporto di questa con l’uomo, il suo porsi come tramite per restituire alla città la sua essenzialità di luogo destinato alla vita, non può risolversi in una semplice operazione di camuffamento.
La società della Post Modernità è molto più dinamica e mutevole di quella del passato; le esigenze cambiano in fretta, la ricerca tecnologica progredisce senza sosta e investe anche il campo dell’architettura, ma con ritmi che, in verità, non si identificano con una migliore fruibilità, una più sofisticata funzionalità e un auspicato minor costo.
Ciò dipende, ovviamente, dalla secolare caratteristica dell’architettura di formarsi con tutto il suo carico di storia e di tradizione e di crescere attraverso le motivazioni dell’uomo: e solo attraverso questa successione di fatti e questa sequenza di avvenimenti, essa si inserisce di volta in volta nella città e la determina. Solo così l’architettura si misura con la storia, ed è storia essa stessa; non per qualche assunzione storicistica, né tradizionalismo, ma perché si costruisce su un’esperienza generale e universale delle cose stesse che circondano l’uomo. In questo senso l’oggetto architettonico è strettamente legato alla sua funzione cosicchè, se avulso da questo concetto, esso è sempre sterile, astratto, inconsistente.
Invece, purtroppo, le mode a cui assistiamo nell’architettura contemporanea, hanno la loro debolezza nella natura commerciale, nella necessità di suggerire e alimentare nuovi bisogni, così come le illusorie “necessità” della vita quotidiana, hanno il loro limite nel perdere di vista il campo del possibile e del reale per perseguire unicamente l’autoesibizione.
E così, anche se la tendenza contemporanea è sempre più indirizzata verso l’essenzialità e la funzionalità, il successo di una architettura sembra rimanere, comunque, profondamente legato alla sua immagine esteriore.
Anche se la conclusione del dibattito lascia intravvedere che molte cose ancora non vanno, l’affondo finale ha dato i suoi frutti perchè il conflitto sembra davvero esaurito.
E comunque, almeno un risultato è stato raggiunto: io e il mio doppio non siamo più in aperto contrasto.
