• IL SOGNO DI CARCASSONNE

    Leone Podrini

    Avrei voluto prolungare all’infinito le sensazioni che ho avuto entrando all’interno delle mura di Carcassonne quando, superata la grande porta di accesso, la città mi si era presentata con la sua architettura solida, concreta, medioevale, fatta col senso dell’eternità,  anche se inevitabilmente effimera.
    Dal pullman sul quale viaggiavo con una comitiva di amici, la città mi era apparsa all’improvviso, come un’entità compatta, autonoma, circoscritta da una doppia e lunga cinta di mura continue e massicce dalle quali spuntavano le numerosissime torri di guardia circolari, inserita in uno scenario naturale umanizzato dalle pratiche agricole.
    Nell’ampio panorama, i campi di viti si distendevano fino alle prime colline e, sullo sfondo, le cime innevate dei Pirenei facevano da cornice a un paesaggio che, in quella giornata di sole, mi era apparso coinvolgente e del tutto in assonanza con il luogo. Il color giallo verde che dominava, appariva tremolante per la brezza leggera che rendeva ancora più piacevole quella giornata di fine giugno.
    Al suo interno, più che come un insieme costruito secondo una logica urbanistica predeterminata, la città di Carcassonne mi si era configurata come una aggregazione spontanea di borghi e quartieri nelle cui strade si svolgeva la vita comunitaria.
    Superare la porta, era stato come entrare nella macchina del tempo: quello reale era fuori. Dentro, l’aria, i suoni, le voci degli altri visitatori, tutto era fermo a un tempo irreale, antico, non estraneo ma, anzi, avvolgente e coinvolgente; un pezzo di tempo scolpito, solidificato e plasmato dal perimetro delle  lunghissime mura.
    Il borgo vecchio, era caratterizzato da strade piccole, acciottolate e tortuose che confluivano in pittoresche piazzette piene di piccoli negozi di varia natura all’interno dei quali mi aspettavo di trovare non i soliti articoli per turisti, ma antichi artigiani  o avventori vocianti e avvinazzati come era stato in un tempo lontano.
    Le sue strade, strette e tortuose, riconducevano costantemente verso i bastioni o verso angoli interni inaspettati e suggestivi  per sbucare poi, improvvisamente, negli slarghi assolati e pieni di gente; tuttavia, percorrendole, avevo percepito con sorprendente chiarezza che l’articolazione dinamica degli spazi si contrapponeva ancora al senso di robustezza materiale delle costruzioni e che ancora oggi, come allora, non era il singolo edificio che si vestiva dei fasti della magnificenza, ma tutta la città sembrava ancora tendere verso l’alto, a una vita spirituale più elevata nella quale l’imperfezione terrena si lasciava comunque spogliare dei propri pesanti fardelli e l’evasione rappresentava il sogno, l’occasione per volare in una dimensione irreale e fantastica.
    Ad ogni svoltare d’angolo, l’atmosfera medioevale si faceva sempre più tangibile, ed ero quasi certo che mi sarei imbattuto in una giostra o in un torneo…ed erano tornati alla mente i Visigoti, i Franchi e i Saraceni che avevano camminato nelle stesse strade nelle quali stavo passeggiando.
    La cattedrale, piacevole miscela di stile romanico e gotico, era ornata da splendenti rosoni capaci di catturare la luce che, al tramonto, colorava gli interni di un magico color rubino e, anche questa, mi era sembrata ancora, come era d’uso nelle città medioevali, il luogo che rappresentava fisicamente l’interezza della città poiché era ad essa che facevano riferimento i diversi borghi e le diverse contrade, ed era per mezzo di essa che la chiesa svolgeva la sua funzione religiosa e culturale identificandosi come elemento di centralità sia reale che simbolica.
    Ho “vissuto” dentro quelle mura come in un microcosmo e ho trascorso il tempo della visita come un sogno, un’evasione, un’occasione per volare in una dimensione irreale e fantastica.
    Quando sono uscito da quel luogo magico e sono risalito sul pullman, ho capito il perché di quelle sensazioni così forti.
    Ero appena stato all’interno di uno dei miei quadri.

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